by Francesca Spigarolo | Dec 6, 2016 | Commons Press
Questa intervista a Christian Iaione, co-fondatore di LabGov, è originariamente apparsa su Linkiesta il 26 Novembre 2016.
«Non sarà il referendum a cambiare l’Italia, ma le città e il protagonismo delle piccole comunità»
Parla Christian Iaione, esperto e studioso di beni comuni e rigenerazione istituzionale di levatura mondiale: «Il perno delle nuove politiche pubbliche sono i cittadini che si fanno parte attiva. La strada da seguire? Prima si sperimenta, poi si fanno leggi e regolamenti»
«Oggi torno a casa a parlare di beni comuni e rivoluzioni della governance ad Avellino, casa mia. È la prima volta che accade. Nessuno è profeta in patria». Sorride, Christian Iaione. Professore associato di diritto pubblico nell’Università Marconi di Roma, fellow dell’Urban Law Center della Fordham University di New York e docente di governance dei beni comuni, sharing economy, diritto e politiche urbane presso la LUISS Guido Carli nell’ambito del progetto LabGov, membro dell’Advisory Group sulla sharing economy del Sindaco di Seoul, Iaione gira il mondo per raccontare le sue idee su come dovremmo cambiare il rapporto tra istituzioni e comunità puntando su concetti come condivisione e collaborazione. Sono le otto e mezza del mattino del 24 novembre. Il giorno prima, il 23, era l’anniversario di quel giorno del 1980 in cui un terremoto ha distrutto l’Irpinia: «Me lo ricordo, quel giorno è come se fosse ieri. Quando tenevo un corso di comunicazione istituzionale alla LUISS, proiettavo sempre il discorso che l’allora presidente Sandro Pertini dopo il terremoto. Lui va lì, vede quello che è successo e fa un j’accuse allo Stato, denunciando con forza il ritardo e le inadempienze dei soccorsi. Quel discorso per me è stato uno spartiacque.
È lì che ti sei convinto che lo Stato sia un monolite da abbattere?
Attenzione: per me lo Stato non è un monolite da abbattere, ma da rigenerare. Pertini si chiedeva perché le leggi sulla protezione civile non fossero state applicate. Di fatto, quel discorso sveglia lo Stato e gli da la forza di rigenerarsi, perlomeno nella gestione delle emergenze. E lo fa puntando sulla collaborazione civica tra cittadini e istituzioni.
In che senso?
Oggi, ogni volta che c’è un terremoto, l’offerta di partecipazione ai soccorsi soverchia la domanda. Nei due terremoti del centro Italia di quest’anno, la Protezione Civile ha chiesto ai soccorritori volontari di non precipitarsi, per non intasare le strade e l’organizzazione, se non attraverso i canali istituzionalizzati. È pazzesco, ma questo vuol dire che c’è una norma sociale che incentiva la collaborazione, in caso di calamità naturale. Non fu così nell’80. Pertini si appellò al dovere costituzionale di “solidarietà umana”. È la prova che bisogna pluralizzare lo Stato, per rigenerarlo.
Cosa vuol dire pluralizzare lo Stato?
Vuol dire uscire dall’idea che i problemi si possano risolvere solo in un alveo istituzionale. Libera, ad esempio, è una storia esemplificativa, in questo senso: sconfiggere la mafia non raccogliendo voti, ma aprendo codici Ateco alla camera di commercio. Partecipando a un’economia legale che controbilanci l’illegalità con una forza uguale e contraria. Coi soldi che piovono dal centro apparentemente a caso sulle amministrazioni del Sud il Mezzogiorno non ripartirà mai. Se investiti sui giacimenti di ricchezza civica e sociale, forse la musica cambia.
C’è chi pensa che quei giacimenti al sud non esistano…
Sbaglia. Il Mezzogiorno ha un capitale sociale sottostimato. Manca l’infrastruttura semmai. Libera è stata brava a creare un prototipo che può funzionare anche oltre i beni confiscati.
Tu sei uno che crea infrastrutture?
No, io sono un apriscatole (e per questo a volte un rompiscatole). Dovunque vado cerco di aprire i processi e di costruire delle piattaforme di collaborazione civica tra i diversi attori: per lo sviluppo economico locale e per la rigenerazione istituzionale. Il mio scopo è aprire le grandi scatole dello Stato, dei sistemi economici locali, delle grandi organizzazioni della società civile, realtà che tendono a ossificare e a chiudersi in se stesse.
Quand’è che hai cominciato a fare l’apriscatole?
A Bologna, nel 2011. Anzi, qualche anno prima, quando grazie alla Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, contribuisco a disegnare e partecipo attivamente a una sperimentazione amministrativa sui beni comuni urbani, nella quale riesco a trasferire e verificare i risultati degli studi teorici che avevo sviluppato negli Stati Uniti tra il 2006 e il 2008 sulle strade e le infrastrutture urbane da trasformare in commons e sul ruolo catalitico dei soggetti pubblici locali.
È da lì che sei partito, a Bologna?
No, all’inizio della storia di Bologna ci sono un parco di quartiere, delle panchine, i graffiti sui muri nel centro storico, uno spazio abbandonato in periferia. Sono luoghi e risorse materiali rispetto alle quali c’era un bisogno insoddisfatto, per quanto potesse essere efficiente e brava l’amministrazione. Da soli non potevano farcela. Ma invece di ritrarsi o limitarsi ad esternalizzare ha cercato nuove forme di collaborazione coi cittadini.
Ad esempio?
Per la ripulitura dei muri dalle tag sui palazzi storici, ad esempio. O per mettere un nuovo arredo urbano nei parchi come le panchine, che hanno riportato lì bambini e famiglie. Erano parchi perfetti, a rigore di capitolato, non era una storia di mala amministrazione. Ma senza la collaborazione dei cittadini erano luoghi pubblici, non necessariamente civici. Il perno delle nuove politiche pubbliche sono i cittadini che si fanno parte attiva, col supporto tecnico, organizzativo, materiale dell’amministrazione. È questo che rende una città post-moderna, la sua usabilità civica.
È lì che nasce il famoso regolamento sui beni comuni urbani di Bologna?
Da questa esperienza nasce un regolamento, è vero, ma non è quella la cosa rivoluzionaria. Con un gruppo di ricerca composto da studenti LUISS abbiamo semplicemente raccolto tutti i regolamenti innovativi sull’uso di quelli che secondo gli studi allora pubblicati erano da considerare beni comuni urbani. Alla fine il regolamento non è altro che un testo unico sulla collaborazione civica a livello urbano su spazi pubblici, spazi verdi e spazi abbandonati, in particolare. L’idea rivoluzionaria, semmai, è stata quella di produrre diritto e innovazione nel diritto a livello urbano. Partire dal basso è un hackeraggio del sistema e il bello è che è perfettamente legale, perché è la Costituzione che ci fa scudo (gli articoli 2, 3.2 e 118 della Costituzione tra gli altri). La seconda rivoluzione, è consistita nel farlo con la comunità locale, fuori dalle istituzioni. La terza rivoluzione sta nel metodo: prima abbiamo sperimentato, poi abbiamo scritto le regole.
Stai dicendo che bisogna infrangere le leggi, per farne di nuove?
Sto dicendo che il passo dell’innovazione sociale è tale per cui i modi antichi di produrre armonia sociale non passeranno più sempre e soltanto da assemblee legislative. Bisognerà produrre diritto partendo dai processi e da nuove realtà comunitarie che si auto-legittimano. Bisogna aggiornare il software delle istituzioni, altrimenti rimarranno sempre indietro. Stiamo leggendo con occhiali ottocenteschi il nuovo millennio. Anzi, ancora di più: stiamo leggendo l’antropocene (l’era geologica in cui all’uomo e alla sua attività sono attribuite le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche, ndr) con le lenti dell’olocene.
E cosa distingue l’antropocene dall’olocene?
Che siamo entrati in un’epoca in cui nessuna istituzione o assemblea è disegnata per intercettare i cambiamenti in atto prodotti da fattori di crisi da un lato e dall’accresciuta capacità dei cittadini grazie a diffusione della conoscenza e alle tecnologie. Non è colpa delle assemblee e di chi ne fa parte, intendiamoci, ma dell’architettura istituzionale complessiva. Ci sono assemblee come il consiglio comunale di New York che hanno messo occhi su quel che sta succedendo in Italia in tema di innovazione sociale.
New York più indietro dell’Italia?
L’Italia è uno dei luoghi più avanti nell’innovazione sociale. Abbiamo un approccio che genera innovazione, e che può tranquillamente ambire ad avere una proiezione internazionale. Noi siamo dentro il paradigma dell’open government, ma mentre altrove si parla di piattaforme tecnologiche, noi parliamo di rigenerazione delle piattaforme istituzionali. Noi diciamo che non basta il sito internet. La nostra idea di futuro nel governo ruota intorno al ruolo chiave della comunità.
Fa sorridere pensare che l’epicentro del cambiamento sia un Paese iperburocratico come l’Italia…
Mi chiedono sempre come tutto questo sia potuto succede in Italia, in effetti. Forse è anche per i nostri limiti e per la nostra burocrazia. Che spinge funzionari coraggiosi, talentuosi e innovativi a far entrare la scienza civica nelle “zone morte dell’immaginazione” che la burocrazia tende a creare. Sono loro che rigenerano le istituzioni: penso a Bologna, a Reggio Emilia, alla Regione Toscana. O ancora, a realtà come Milano, Napoli, Torino, Messina. Casi tutti egualmente innovativi, con traiettorie molto diverse tra loro. Nessuno è uguale a se stesso, ma i principi sono i medesimi. Forse andrebbero costruiti dei ponti, tra queste torri.
Possono diventare dei modelli, queste esperienze
No, assolutamente. Ogni comunità deve produrre il suo diritto, altrimenti rimane lettera morta.
Come mai?
Perché la società e l’amministrazione non lo sentono proprio o non sono in grado di maneggiarlo se non lo hanno prodotto. Io applico in ogni contesto un protocollo metodologico, ma è iterativo, in costante aggiornamento. Come se fosse un software, per l’appunto. Tutto deve essere adattivo e iterativo, perché è adattandosi che si imparano le lezioni. Chi fa copiare regolamenti affermando che può salvare la comunità si comporta da sciamano che vende pozioni magiche. Non esistono ricette taumaturgiche purtroppo, bisogna sperimentare. E nel frattempo, anche grazie al regolamento di Bologna, sono intervenute modifiche al quadro legislativo nazionale che rendono più urgente creare centri di competenza amministrativa condivisa per applicare queste innovazioni come il Collaboratorio di Reggio Emilia, l’Ufficio per l’Immaginazione Civica di Bologna o la CO-Area che Regione Toscana vuole costruire a livello regionale.
Un’ultima domanda: tu che sembri muoverti come un hacker istituzionale cosa ne pensi del referendum istituzionale del 4 dicembre?
Che il 5 dicembre ho due convegni sulle città, uno la mattina a Napoli all’Università Suor Orsola Benincasa, uno il pomeriggio alla UniMarconi. Non mi iscrivo all’ennesima disfida italica tra guelfi e ghibellini che il referendum ha generato. Il vero centro, oggi, è la periferia. E in periferia non si sente il bisogno di trovare altri, nuovi motivi per dividersi o accapigliarsi attorno a grandi dibattiti teorici. Servono posti di lavoro e nuove forme di solidarietà per prevenire vecchi e nuovi populismi che rischierebbero poi di minare le reali fondamenta del nostro patto costituzionale, e cioè la prima parte della Costituzione, senza neppure modificarla di una virgola.
by Francesca Spigarolo | Nov 22, 2016 | Commons Press, The Urban Media Lab
Questo articolo è stato pubblicato su La nuova ecologia in data 16/11/2016.
Poli culturali in ex cinema chiusi. Coworking negli edifici abbandonati. Interi quartieri da riprogettare. Viaggio nelle città che cambiano
Edifici cadenti, aree industriali non più utilizzate, vuoti urbani che rifioriscono. Si trasformano grazie ad associazioni e cittadini, veri e propri pionieri, che rendono gli spazi inutilizzati un “bene comune”. Da Nord a Sud la rigenerazione urbana si diffonde nel nostro paese e contagia con i valori della condivisione. Cambia l’aspetto di interi quartieri, coinvolge nuovi spazi di lavoro, i coworking, ma anche sale cinematografiche chiuse da anni. Come quella del cinema Impero a Roma. Parte proprio da qui il nostro viaggio nell’Italia che si rigenera.
Tutto un altro film

C’è stato un periodo in cui Roma coincideva con la parola cinema. Erano gli anni Cinquanta e Sessanta e la Capitale era un set perfetto. Nelle sale cinematografiche ci si incontrava, nascevano amori, si accendevano dibattiti, magari dopo un film neorealista. Tutt’altro scenario nel presente, tra la crisi del settore e la chiusura continua delle sale. Dai Parioli a Portuense, dal Pigneto al centro storico, sono 43 quelle censite dal Campidoglio che hanno spento i proiettori negli ultimi dieci anni. Eppure proprio da qui, da questi “abbandoni” urbani, sta sbocciando una nuova stagione. Come quella del Cantiere cinema Impero. La sala venne aperta nel quartiere di Torpignattara durante i primi anni del fascismo, ma se ne inaugurò una, con lo stesso nome, anche ad Asmara, come segno del colonialismo nostrano. Il cinema Impero di Roma continuò la sua programmazione fino agli anni ‘70 quando si abbassarono le saracinesche. Da quel momento è diventato un rifugio per i senzatetto. «Il progetto di ristrutturazione del proprietario dello stabile, Alessandro Longobardi, agli inizi del 2000, per farne alloggi universitari e un multisala – racconta Claudio Gnessi del coordinamento del Cantiere del cinema Impero – scatenò un’occupazione abitativa, sgomberata nel 2010». Nel novembre del 2011 il comitato di quartiere Torpignattara e l’associazione per l’Ecomuseo casilino Ad Duas Lauros hanno lanciato una petizione per la riapertura del cinema. «È stato un momento di partecipazione straordinaria di un intero quartiere. Quando abbiamo fermato la raccolta, di firme ne avevamo 4.000». Alla prima riunione del Cantiere Impero parteciparono in moltissimi: italiani, bengalesi, cinesi, maghrebini. Una città multietnica, finalmente unita. Le decisioni da prendere erano tante: bisognava capire come finanziare sia la ristrutturazione che il mantenimento dell’attività, come coinvolgere la comunità e che cosa realizzare negli spazi del cinema. «La richiesta che ha accomunato tutti gli abitanti – spiega Gnessi – è stata quella di uno spazio polifunzionale, con aree per l’intrattenimento, la formazione e la produzione artistica». Un vero e proprio percorso di partecipazione, che ha coinvolto anche la proprietà, grazie al quale si è arrivati al progetto esecutivo.
La ristrutturazione ad oggi ha investito 6 spazi di 100 metri quadrati per ogni piano. All’interno ci sono sale prova per la formazione teatrale e per la danza, che vengono affittate dalla proprietà per rientrare dell’investimento fatto. L’evoluzione del progetto prevede la realizzazione di una factory del cinema Impero, uno spazio della formazione, un coworking, un laboratorio sartoriale per i vestiti di scena e appunto sale prova per musica, teatro e danza. «Il proprietario ha addirittura migliorato il progetto del Cantiere, aggiungendo sul tetto della torre una struttura in legno dove si faranno performance teatrali». A mancare è però una regia pubblica, comunale, regionale o del Mibact. «Per ora – conclude Gnessi – è un impegno che ricade solo sui cittadini. C’è un privato che sta realizzando un progetto civico con il grande assente del pubblico. Sono le persone del quartiere che vanno a controllare i lavori». Il progetto è dei cittadini ed è grazie al radicamento nel territorio che ha avuto successo.

Proprio da questo tipo di relazione con il quartiere nasce anche l’esperienza del Nuovo cinema America, a Trastevere. Partita come un’occupazione della sala, rimasta chiusa per 14 anni, è un’esperienza interamente condotta da un gruppo di studenti che ha avuto il sostegno degli abitanti del Rione e di molte personalità del cinema. Sgomberata l’occupazione, i ragazzi dell’associazione Piccolo America hanno continuato a portare il cinema in luoghi “altri” come un liceo, il carcere femminile, il monte Ciocci, piazza San Cosimato. E il cinema America? «Non siamo ancora stati in grado di riaprirlo definitivamente – spiega Valerio Carocci, uno dei ragazzi – ma l’abbiamo per ora sottratto alla demolizione e speculazione. Abbiamo vinto al Tar contro il tentativo di rimozione dei vincoli ministeriali e aspettiamo la risposta dal Consiglio di Stato». Nell’aprile scorso hanno vinto il bando per l’assegnazione della Sala Troisi: «Il cuore rimarrà il cinema ma attorno a questo nasceranno nuovi progetti – spiega Carocci – E per la ristrutturazione terremo conto sempre delle richieste degli abitanti». L’obiettivo, come si legge sul sito piccolaamerica.it è quello di farne “un operatore culturale vivente, una palestra di democrazia, un laboratorio di rapporti sociali, un presidio di ragazzi a tutela dei territori e di valori come l’antifascismo e l’antirazzismo”.
Alla rigenerazione urbana fondata su valori condivisi, come la lotta alle mafie, si ispira anche l’esperienza, più recente, dello “Spazio comune cinema Aquila” (Scca), che unisce residenti, centri sociali, associazioni, resistenze territoriali autorganizzate e istituzioni. L’obiettivo è riaprire la sala del Pigneto, bene confiscato alla camorra nel ‘98, affidato dal Comune a una cooperativa sociale e di nuovo chiuso nel 2015. Il cinema avrebbe dovuto riaprire il 7 ottobre scorso. Purtroppo al momento di scrivere questo articolo non è ancora arrivata l’agibilità dello stabile e il percorso per ri-progettare l’“Aquila che verrà” è ancora in corso.
Coworking e non solo

L’onda lunga della rigenerazione è arrivata anche nel mondo del lavoro. Grazie ai coworking. Luoghi in cui non si condividono solo gli spazi ma si intrecciano le competenze. «Nei coworking si è superato il fronte della condivisione per arrivare alla collaborazione – spiega Luigi Corvo, professore di Social entrepreneurship and innovation all’università di Tor Vergata – La vera economia di questi luoghi è nelle relazioni interne: le persone che si conoscono iniziano a creare progetti di imprenditorialità, aggiungono valore, creando delle piccole comunità». Un universo che sta crescendo e che incrocia il cambiamento delle città, attraverso la rigenerazione di spazi urbani. «Non essendo dei luoghi codificati, non esiste una mappatura vera e propria – continua Corvo – i numeri sono ancora molto esigui nel nostro paese. Ma quello che ci deve interessare è il “contagio” che il fenomeno sta innescando».
Un esempio su tutti è il Lab121, che di “contagi positivi” ne ha prodotti tanti. L’associazione no profit ha vinto nel 2011 l’assegnazione di uno spazio in uno stabile di edilizia popolare a Borgo Rovereto, nel centro storico di Alessandria. Il quartiere negli anni ha cambiato volto, soprattutto per i fenomeni di impoverimento sociale frutto della crisi economica. Oltre ad aprire un coworking, quelli di Lab121 stanno ripensando lo sviluppo del territorio in un’ottica collaborativa. «Siamo anche un Fablab, un centro per la rivitalizzazione di quella tradizione artigianale ormai scomparsa nel centro storico – spiega il fondatore Giorgio Baracco – e anche un Community hub, un centro di aggregazione per la comunità, progettata insieme alla casa di quartiere che abbiamo qui di fronte, gestita dall’associazione di don Gallo». A Lab121 si può seguire, in concreto, un corso per stampa in 3D, imparare a usare la fresa, prendere in prestito un libro nella biblioteca in lingua, comprare prodotti a chilometri zero e aggiustare un vestito nella sartoria di quartiere. In più Lab121 sta per completare la riqualificazione del cortile interno che diventerà una vera e propria piazza aperta ai cittadini. «Abbiamo chiesto allo Ied di Roma di proporci sei idee progettuali che abbiamo poi presentato in un convegno ai cittadini – continua Baracco – hanno votato la migliore che sta per essere completata grazie a diversi bandi europei e a un crowdfunding civico».

Nel cortile della palazzina oggi ci sono siepi, panchine, il wi-fi e un palco per gli eventi. Un luogo finalmente restituito alla comunità. Ma non è finita qui. «Da queste esperienze associative è nata una cooperativa che offre servizi collaborativi alle imprese – conclude Baracco – Si va dalle reti d’impresa fino agli acquisti online dalle botteghe del centro, con consegna in bicicletta. Una parte del ricavato viene dato alla Caritas. Si tratta di un ulteriore modo per esaltare la relazione e non la competizione».
È la stessa filosofia di fondo, quella di un’economia civile, che mette al centro le persone e moltiplica i valori, a cui si ispira lo spazio di coworking Yoroom, inaugurato il 23 settembre a Milano, nel quartiere Isola. «Vorremmo contribuire alla costruzione di una comunità socialmente responsabile facendo impresa, creando sviluppo, sostenendo l’economia e avendo un impatto concreto sulla vita delle persone» spiega il fondatore Luca Diodà. Per farlo il coworking, aperto in un ex opificio dismesso, ha assunto lo status giuridico di società benefit, previsto in Italia dalle norme introdotte con la legge di stabilità del 2015. «Le Benefit corporation utilizzano modelli di gestione innovativi – aggiunge Diodà – non mirano solamente al profitto e lavorano per generare un impatto positivo sulla comunità». Nelle prossime settimane sarà lanciato da Yoroom un bando per talenti, progetti e imprese under 35 che metterà a disposizione dei vincitori postazioni di lavoro gratuite, supporto economico e possibilità di accedere a finanziamenti. E nell’arco di sei mesi verranno ospitate sia imprese sia organizzazioni no profit o associazioni che si occupano di migranti e rifugiati.
La nuova gioventù del Pilastro

La rigenerazione urbana fortunatamente non nasce solo dalla “buona volontà” dei cittadini o di singole imprese, magari giovanili. Può essere anche promossa e accompagnata dalle amministrazioni locali. È quello che è successo a Bologna con il Progetto Pilastro. Quest’anno il quartiere, nella periferia nord-est della città, noto per episodi di cronaca nera come quello della strage della Uno Bianca, compie 50 anni. Nonostante l’età, è entrato in una nuova giovinezza. E lo ha fatto grazie al progetto avviato nel 2014 e voluto dal sindaco, Virginio Merola, e dalla circoscrizione. «L’anniversario della nascita è stata un’occasione simbolica, – spiega Ilaria Daolio, coordinatrice del Progetto Pilastro 2016 – un pretesto per iniziare ad avviare un progetto sperimentale in una periferia cittadina». Le difficoltà che deve affrontare chi vive in questo quartiere-dormitorio, all’estremo di San Donato, nato alla metà degli anni ‘60 sotto la spinta dei flussi migratori dal Sud Italia e dalle campagne, sono tante. La lontananza dal resto della città si è sommata con un’altissima fragilità sociale, economica e culturale. «La composizione degli abitanti negli ultimi anni è cambiata – aggiunge Daolio – da un lato gli italiani che sono per la maggioranza anziani, dall’altro tantissime famiglie e giovani di origine straniera, con residenti di 14 nazionalità diverse. Questo ha portato a relazioni complesse, sia intergenerazionali che interculturali». Eppure, proprio qui, i cittadini sono stati molto attivi nel miglioramento del territorio e sono diventati i veri protagonisti del Progetto Pilastro 2016. «L’idea era di innescare un processo di sviluppo che avrà bisogno di tempi lunghi – continua Daolio – le azioni avviate sono non solo di riqualificazione fisica ma anche sociale».
Rifacimento di dieci facciate e dei marciapiedi, creazione di due zone con velocità massima delle auto a 30 km, conversione a led dell’illuminazione pubblica, realizzazione di una pista ciclabile, ristrutturazione di un’arena per spettacoli: l’elenco delle opere realizzate è significativo ma al Pilastro è avvenuto anche molto altro.

«Tutti i cambiamenti fisici del quartiere sono stati fatti anche grazie alle attività di mediazione sociale e culturale, coinvolgendo gli abitanti – continua Daolio – I cantieri avviati sono stati tre, quello di “Sviluppo di comunità” coordinato dalla cooperativa Camelot, quello sulla “Narrazione del territorio” condotto dall’associazione Laminarie e quello sulla “Comunicazione e documentazione partecipata” guidato da Open group». Grazie al lavoro fatto insieme è stato aperto un “Archivio di comunità” digitale del quartiere con foto, audio e video degli abitanti, uno “Spazio di vicinato” in un negozio al piano terra, un luogo per la cittadinanza attiva e per l’autoaiuto. Qui è stato creato il blog “Pilastro 2016”, gestito da una redazione partecipata dai cittadini, che racconta notizie dal territorio e rilancia iniziative come le feste del baratto o la rassegna culturale durante i mesi estivi. Dal progetto è nata anche l’associazione Mastro Pilastro, che presto diventerà un’impresa sociale di comunità, con servizi che vanno dalla manutenzione allo sfalcio e cura del verde. «Ad accompagnare questi percorsi è un’agenzia locale di sviluppo, che ha tra i fondatori il Comune di Bologna e numerose imprese, con lo scopo di ricucire le tre aree che formano il distretto Pilastro nord-est – conclude Ilaria Daolio – ed è stato individuato lo spazio per una casa di comunità, un vero e proprio laboratorio di cittadinanza attiva». La rigenerazione avrà anche tempi lunghi ma produce cambiamenti a cascata.