Questa intervista al professor Christian Iaione è originariamente apparsa su Vita il 3/11/2016.

Un Regolamento sulla collaborazione tra amministrazione e cittadini per la cura dei beni comuni. Un ufficio dell’Immaginazione civica. La rivoluzione sharing della città emiliana raccontata sul numero di Vita Bookazine in edicola da Christian Iaione, docente alla Luiss Guido Carli

Da pochissimi giorni Milano ha annunciato che avrà un regolamento per i beni comuni. Da quando Bologna, nel maggio 2014, adottò – prima in Italia – un regolamento per la cura e rigenerazione dei beni comuni urbani, il regolamento ha “ispirato” altri 175 comuni in tutta Italia, tra cui città come Torino e Genova. Altre città hanno optato per strumenti diversi dal regolamento, ma sono interessate a sviluppare il modello dell’amministrazione condivisa.

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A Bologna sono già 350 i patti tra cittadini, associazioni e Comune sottoscritti nell’ambito del regolamento, con 40 immobili dati in gestione ai cittadini per la loro rigenerazione. La città sarà (ancrora una volta) la prima in Italia ad aprire un ufficio per l’immaginazione civica. Ma perché la rigenerazione istituzionale è tanto importante nell’epoca di sharing economy e di un’innovazione diffusa?

Ce lo spiega Christian Iaione, docente di governance dei beni comuni, sharing economy, diritto e politiche urbane alla Luiss Guido Carli e coordinatore di LabGov – LABoratorio per la GOVernance dei beni comuni.


Bologna è stata la prima città in Italia ad avere un regolamento per la cura e rigenerazione dei beni comuni urbani, che è stato molto “copiato”…
Le città che hanno adottato un regolamento simile a quello di Bologna sono ben più di cento ma quelle che stanno investendo davvero sul modello sono pochissime: direi Milano, Bologna, Napoli, Messina… insomma, davvero meno di dieci. Fra l’altro alcune città lo stanno facendo anche senza regolamento, Napoli ad esempio ha fatto una delibera interessante. Copiare il regolamento è facile ma molto rischioso, sia perché questo è ancora un prodotto sperimentale, fragile, che va maneggiato con cura, sia perché – soprattutto – investire sulla visione è un’altra cosa, c’è bisogno di un fortissimo accompagnamento. È una differenza importante, se la burocrazia resta la stessa, non hai risolto nulla.

Professore, perché è Bologna la città più sharing d’Italia e non, per dire, Milano dove le piattaforme più famose della sharing economy hanno numeri più alti?
Io non farei tanto una graduatoria tra Bologna, Milano o un’altra città, è questione di diversità. Non è che Bologna sia più sharing di Milano, è che le amministrazioni locali di Milano e di Bologna hanno scelto due vie relativamente diverse. Milano finora ha lavorato molto sullo sharing in senso stretto, sta rinnovando i meccanismi di funzionamento della città e di erogazione di alcuni servizi basandosi su piattaforme che cercano di abilitare lo scambio reciproco. È una grande innovazione, ma siamo sempre nell’ambito del capitalismo basato sul crowd.

Bologna invece?
Bologna invece sta camminando fin dall’inizio su un altro versante, ha scelto la pooling economy, che valorizza di più gli aspetti sociali rispetto al mercato, con la realizzazione di progetti e iniziative che vanno nella direzione di un’economia collaborativa, non solo di condivisione. I coworking, i fablab, gli spazi creativi per la produzione di software in maniera aperta, la rigenerazione dei beni comuni urbani, pubblici o privati che siano, che attraverso la collaborazione vengono rigenerati, curati o gestiti in maniera circolare. Si cercano nuove forme di gestione per rimettere in moto quella capacità inutilizzata che c’è nella città, ma che è abbandonata o dequalificata e ora invece viene riattivata e utilizzata in funzione pubblica. Ricordo però che in questa fase di transizione nessuna ha il modello, c’è la necessità di procedere con meccanismi di sperimentazione e di prototipazione.

Si dice che la sharing economy abbia bisogno di più sociale, è d’accordo?
Sì, l’innovazione sociale è un elemento. Abbiamo bisogno di ripensare le forme del welfare tradizionale nell’ottica di dire che i servizi alla persona o altre forme di bisogni sociali possono essere soddisfatti attraverso circuiti allargati che non necessariamente prevedano un ruolo esclusivo di uno o dell’altro attore tradizionale (pubblico, privato, privato sociale, ognuno fa da sé), ma che ci possano essere dei meccanismi che mettano a fattor comune le diverse energie: ognuno mette un pezzetto della propria energia e così facendo si rimette in piedi un sistema di welfare che ha innegabilmente un problema di energia. Se lavoriamo sempre nell’ottica bipolare il tema del welfare non si riesce a risolverlo.

E quanto conta invece la dimensione locale in epoca di sharing economy?
Tutto questo può accadere soprattutto a livello locale, soprattutto ma non solo, perché il locale è lo spazio dove le persone possono reciprocare, condividere, è nello spazio di vita reale delle persone che si possono generare queste relazioni collaborative.

Diceva che in questa fase di transizione nessuno ha il modello: quali sperimentazioni le sembrano allora più interessanti?
Stiamo facendo sperimentazioni in diverse città, sicuramente Bologna è il “cantiere” più grosso. Bologna nel 2014 ha adottato il regolamento per la cura e rigenerazione dei beni comuni urbani, nei primi sue anni sono stati sottoscritti 200 patti di collaborazione, l’amministrazione sta gestendo il regolamento e contemporaneamente facendo una sperimentazione sul regolamento per capire quali sono i dispositivi devono essere integrati. Una cosa che abbiamo capito, ad esempio, è la necessità di infrastrutturare, di creare una sorta di ufficio che gestisca il lavoro di co-progettazione dei patti prima che il patto sia definito. Infatti se l’amministrazione continua a ragionare in maniera classica, “chi vuole fare qualcosa venga da me che facciamo il patto”, non cambia nulla. Per questo in tre luoghi di periferia – Bolognina, Piazza dei Colori e Pilastro – abbiamo cercato di costruire dei circuiti allargati di governance. Questa sperimentazione è servita a generare un protocollo metodologico e un ufficio per l’immaginazione civica, che aprirà nel 2017, nell’ottica di dire che il regolamento ha bisogno di una piattaforma istituzionale che faccia da ponte verso la città e le consenta di entrare dentro l’amministrazione per generare sempre più iniziative di sharing.

Fuori da Bologna cosa si sta muovendo in questa stessa ottica?
A Reggio Emilia stiamo lavorando alla trasformazione dei Chiostri di san Pietro in luoghi in cui nasca il “collaboratorio” di cui parla Ostrom (#collaboratorioRE): cinque attori in un solo luogo con l’obiettivo di re-immaginare i servizi alla persona, con nuove tecnologie e una co-governance. Un’altra realtà è quella di #collaboratoscana, interessante perché c’è il salto di scala a livello regionale: a Sharitaly presenteremo il Libro verde sull’economia della condivisione e della collaborazione.

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 Matteo Lepore, assessore all’Immaginazione civica

Qual è il ruolo di una pubblica amministrazione in tutto ciò?
Molti usano in maniera opportunistica la sharing economy e il tema della cura dei beni comuni, intendendola come un “fate voi”. Non è questo e gli amministratori che lo hanno compreso infatti stanno investendo su questo, destinando risorse, per aumentare l’impatto degli interventi pubblici. L’amministrazione c’è, ma lavora insieme alla comunità, fatta da tutti questi altri attori, anche privati e le imprese, che hanno tutto l’interesse ad essere parte dei processi collaborativi perché il benessere della città significa benessere individuale. Bologna ha deciso di destinare a questo le risorse del PON Metro: sono 40 milioni di euro da qui al 2020. Non tocca a me dirlo, ma moltissimi policy makers che si sono posizionati su questo tema sono stati premiati dagli elettori, i cittadini vogliono questo approccio collaborativi, dei beni comuni, dell’innovazione sociale, sta cambiando qualcosa. L’immaginario collettivo vede la sharing economy come minor prezzo, ma quella è solo la punta dell’iceberg, peraltro affilata. Fra l’altro Bologna, Torino e Milano sono le sole tre città italiane che hanno appena vinto il bando UIA-Azioni Urbane Innovative della Commissione Europea, che premiava progetti ipersperimentali e ipercomplessi, proprio con progetti che vanno in questo filone.

Bologna ha due elementi peculiari, una popolazione molto giovane e una forte tradizione di cooperativismo: quanto contano questi elementi?
Condivisione e collaborazione accadono e sono abilitati dove c’è un maggior capitale sociale. La cooperazione è l’istituzionalizzazione e l’entificazione dell’idea del capitale sociale, sono uno conseguenza dell’altro. Bologna è senza dubbio una città con un grande capitale innovativo, molti giovani stanno inventando nuove forme, penso a MakeInBO, la community che sostiene il FabLab Bologna o Dynamo che ha rigenerato l’ex stazione degli autobus e ha creato la velostazione, un punto di riferimento per la mobilitò sostenibile, o ancora Kilowatt e il suo lavoro alle Serre dei Giardini Margherita… Il punto però è: questi due capitali, quello sociale e quello collaborativo, che certo sono risorse abilitanti, sono risorse date o si possono generare anche là dove generalmente si pensa non esistano?

Qual è la risposta?
Si possono generare. In realtà l’elemento chiave è l’infrastruttura istituzionale, la vera differenza è questa. Al Centro-Nord abbiamo istituzioni con un elevato tasso di etica pubblica e di capacità istituzionale, al Sud spesso questo non c’è. Il problema non sta nelle comunità ma nelle istituzioni, quello di cui abbiamo urgenza oggi p un grande progetto di rigenerazione istituzionale perché le istituzioni diventino soggetti abilitanti di questo tipo di processo. Il capitale sociale e collaborativo e innovativo dei giovani c’è ovunque, ma al Sud le istituzioni spesso si concepiscono come realtà levianatiche, di comando e controllo, che non investono sullo sviluppo della comunità. Questa è la differenza. C’è un gap di capitale istituzionale e bisogna investire lì, perché per liberare le energie ci voglio istituzioni abilitanti dell’azione collettiva, mentre ad oggi l’istituzione si è percepita più come “redistrubutiva”. Al Sud adesso ci sono germi non solo di diversità ma di rinascita: penso a Bari, Matera, Napoli. Io guarderei con attenzione a questi casi, sta nascendo una via meridionale alla città condivisa.

Quindi di nuovo vuol dire che la dimensione locale conta comunque molto?
C’è una valorizzazione forte del genius loci. Non serve importare modelli forgiati altrove, ad esempio nella Silicon Valley, dobbiamo prenderli dai territori. A Centocelle, a Roma, il quartiere con il reddito medio più basso della città, 30% di stranieri, molti anziani, stiamo lavorando per costruire un digital community hub all’interno del parco storico di una villa, pieno di tanti elementi archeologici e storici, perché diventi una sorta di “mini collaboratorio” di quartiere e attraverso meccanismi e processi collaborativi generi la crescita di piccole imprese culturali e creative, con la rigenerazione di alcuni manufatti come l’antica osteria e una ex pompa di benzina. La pooling economy è si creare relazioni, non solo condividere risorsa fisiche e dalle relazioni collaborative nascono altre “n” reazioni, davvero può nascere un nuovo mondo.